CONCERTI IN PROGRAMMAZIONE:
MILANO: |
Quando: 23-10-2008 |
Dove: Teatro degli Arcimboldi |
Telefono: 02- 641142212/214
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Indirizzo: Viale dell'Innovazione, 20 |
DISCOGRAFIA:
1967 - Songs of Leonard Cohen
1969 - Songs from a Room
1971 - Songs of Love and Hate
1974 - New Skin for the Old Ceremony
1977 - Death of a Ladies' Man
1979 - Recent Songs
1984 - Various Positions
1988 - I'm Your Man
1992 - The Future
2001 - Ten New Songs
2004 - Dear Heather
STORIA:
Il poeta scarno del rock, che ha saputo fondere intellettualismo europeo e songwriting americano.
Con un percorso che ribalta l'iter tradizionale degli artisti che affiancano nella loro attività musica e letteratura, il canadese Leonard Cohen opera cronologicamente prima come poeta e romanziere e poi come cantautore. L'impianto lirico dei suoi album più riusciti è di una coerenza e compattezza che non trova uguali nella storia della pop music. Ma anche sotto il profilo squisitamente musicale Cohen è uno degli autori più influenti dela seconda metà del Novecento, paragonabile solo a Bob Dylan e Neil Young. Cohen può infatti vantare una nutrita schiera di epigoni: musicisti cioè che hanno seguito il solco della sua cifra stilistica, innestandola su nuove istanze sonore, a partire da Nick Cave. Ma il beautiful loser per eccellenza rimane lui, a fronte dell'esordio tardivo (a più di trent'anni) e di un mood compassato che rappresenta tuttora un'eccezione nel mondo caotico e adrenalinico della musica da consumo.
Di famiglia ebrea, Leonard nasce nel 1934 a Montreal, in Canada. Anche in virtù della predominanza linguistica della comunità francofona nella sua città d'origine, i suoi modelli musicali e letterari sono soprattutto francesi: vero e proprio idolo degli anni della sua formazione è il belga Jacques Brel, dal quale apprende i segreti di una scrittura a un tempo malinconica e spietata, capace di scavare nel cuore nero dell'uomo contemporaneo. L'origine ebraica contribuisce invece a suscitare nel giovane Leonard un profondo interesse per i testi sacri. All'immaginario dei quali si ispirerà sempre, per cavarne immagini che rappresentano un sottile contrasto rispetto alle istanze moderniste del pop, e che gettano invece le basi per una consonanza con l'altro grande songwriter americano di quegli anni, Bob Dylan. Dopo aver pubblicato una raccolta di poesie già nel 1956 e avere ottenuto ottimi riscontri di critica con un romanzo, intitolato "The Favourite Game", nel 1963, Cohen raggiunge il successo di massa con "Beautiful Losers", una novella decadente che diventa in breve un manifesto della generazione sospesa tra la rivoluzione dei poeti beat e la contestazione studentesca.
Anche allo scopo di esplorare le proprie possibilità in ambito musicale, cercando di concludere un contratto discografico, Cohen si trasferisce a New York, dove incontra i beatnik, a cui si è ispirato per i suoi lavori letterari. Ma entra in contatto anche con Andy Warhol e gli artisti della Factory, che contribuiranno a ridisegnare l'estetica pop del decennio seguente. È Judy Collins a intuire che le liriche del canadese, soprattutto quelle contenute nel libercolo "Parasites Of Heaven", sono già testi pop perfettamente compiuti, a cui serve solo una tavolozza di accordi per spiccare il volo. In men che non si dica viene raggiunto un accordo con la Columbia, e Songs Of Leonard Cohen (1968) viene inciso in poche settimane in solitudine. Si tratta di un incredibile disco di debutto, segnato da un grappolo di canzoni destinate a diventare immediatamente dei classici. Pur se concepito a New York, a diretto contatto con la realtà in fermento del Village e dei suoi folk club, l'album è lontano dal suono alla Woodie Guthrie, sporcato di rural blues, in voga in quegli anni tra le fila dei cantautori americani. Cohen appare semmai un menestrello affezionato alla vecchia Europa, coi suoi madrigali agresti intrisi di umori gotici e di riferimenti a Brassens e Brel. Ballate come "Suzanne", "So Long, Marianne" e "Sisters Of Mercy" abbinano citazioni bibliche a scabrosi temi libertari. Gli arrangiamenti sono essenziali e il suono quasi scarnificato, basato com'è su una nuda chitarra acustica.
Quella di Cohen si delinea da subito come una poetica marginale, decadente e profondamente pessimista, che non manca di piacere a chi fino a pochi anni prima si è nutrito delle poesie esistenzialiste degli chansonnier francesi: non a caso Fabrizio De Andrè traduce alcuni di questi "standard" della nuova canzone d'autore, includendoli nei suoi dischi.
Gettate le basi di un'incredibile seppur tardiva carriera con il capolavoro dell'esordio, Cohen non cambierà di una virgola gli ingredienti della sua ricetta sonora. L'opera seconda, Songs From A Room (1969), percorre la strada di una misura ancora più intimista e dimessa, in cui trova spazio una maggior varietà di temi. Si passa così dalle storie di vita vissuta e agli umori esistenzialisti di "Nancy" al respiro epico di "The Partisan", sino al simbolismo di "Bird On A Wire". Un mood nero, in netta controtendenza rispetto alle utopie spensierate dell'epoca, fa di Leonard Cohen un sorta di cavaliere solitario, arroccato in difesa di un'autonomia stilistica che lo allontana dal pubblico di massa dei grandi festival celebrativi del flower power. Songs Of Love And Hate (1971) suona ancora più depresso dei lavori precedenti, tra i desolati scenari urbani di "Famous Blue Raincoat" e la visione apocalittica di "Avalanche".
La quadrilogia dei lavori più significativi del canadese è chiusa da New Skin For The Old Ceremony (1974), in cui alla vera e propria danza macabra di "Who By The Fire", quasi una giga celtica in slow motion, è affiancato il ricordo commosso della love story tossica con Janis Joplin in "Chelsea Hotel". Si diffonde intanto la leggenda della ritrosia di Cohen: live che si contano sulle dita di una mano, zero concessioni alla mondanità, assenza di gossip sul suo privato: una vita che si addice più a un filosofo che a una popstar.
Negli anni successivi il canadese inizia a operare un attento rinnovamento del proprio suono. Death Of A Ladies'Man (1977) è concepito assieme al maestro del wall of sound Phil Spector, mentre Recent Songs (1979) è immerso in un nuovo impasto strumentale, dove i violini e la vocalità corale hanno il sopravvento. Ma la vera rivoluzione arriva con la commistione di suoni elettronici e ritmi ternari di Various Positions (1984). L'album deve molta della sua fama alla canzone "Hallelujah", ripresa in seguito da Jeff Buckley in una cover straordinaria e anche da Elisa in Italia.
Davvero sconvolgenti sono le tastiere alla Pet Shop Boys del lavoro successivo, I'm Your Man (1988), in cui Cohen sfodera incredibili doti da crooner, dominando alla grande una cascata di sinth alla Wall Of Woodoo, mentre il singolo "First We Take Manhattan" diventa una sorta di slogan del crepuscolo degli anni Ottanta, grazie a un celebre video in cui una serie di uomini nerovestiti si aggirano cupi per una spiaggia invernale. La grande marcia verso la modernizzazione del suono prosegue con The Future (1992), saccheggiato da Oliver Stone e Trent Reznor per il soundtrack di "Natural Born Killers": una raccolta di tracce sempre più sintetiche, in cui fanno capolino suggestioni orientali e rallentamenti narcotici.
Il nuovo millennio saluta un Leonard Cohen ancora in sella, che a settant'anni commemora sentitamente la tragedia newyorkese dell'11 settembre con Dear Heater (2004), recuperando il cupo intimismo degli anni Settanta.
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