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Zucchero
Giardini di Mirò
Genere: Gruppo Italiano

Sito ufficiale:
giardinidimiro.com

CONCERTI IN PROGRAMMAZIONE:
MILANO:
 Quando: 24-5-2008  Dove: Auditorium
 Telefono: 02-83389401/2/3
 Indirizzo: Largo Gustav Mahler

ROMA:
 Quando: 7-6-2008 Dove: Circolo degli Artisti
Telefono: 06-70305684
Indirizzo: Via Casilina Vecchia, 42

DISCOGRAFIA:

1998 - Giardini di Mirò
1999 - Iceberg
2001 - Rise And Fall Of Academic Drifting
2002 - The Soft Touch
2002 - The Academic Rise Of Falling Drifters
2003 - Punk... Not Diet!
2004 - Hits For Broken Hearts And Asses
2006 - North Atlantic Treaty Of Love
2007 - Dividing Opinions

STORIA:
I Giardini di Mirò sono cinque ragazzi emiliani che si stanno dedicando dalla fine dei 90 alla ricerca di nuove forme sonore, piuttosto inusuali per il panorama italiano, al punto che non pare fuori luogo, nel loro caso, parlare di post-rock. La musica della formazione di Cavriago, tuttavia, ha anche una sua peculiarità "mediterranea" che la allontana da possibili modelli anglosassoni. Le parti di chitarra, lineari e melodiche, partono quasi sempre da arpeggi avvolgenti e si evolvono in una serie di esplosioni a catena, dove emergono brandelli ben metabolizzati di Sonic Youth e suggestioni psichedeliche. Una formula che ha subito negli anni progressive contaminazioni ed evoluzioni.
Dopo l'esordio omonimo del 1998 che li porta alla ribalta della scena indie italiana, è grazie a Rise And Fall Of Academic Drifting (2001) che la band di Cavriago trova la definitiva consacrazione nazionale. Un lavoro finemente costruito e armonico in ogni sua componente. Il saper fondere melodia e sonicità in un tutt’uno elettricamente perfetto e sofferente appare, sin dall’ascolto della morriconiana “A New Start”, come il vero tratto distintivo del gruppo.
Certamente, è uno di quegli album che richiede per essere apprezzato sotto ogni suo profilo un ascolto attento e, soprattutto, rilassato. Solo così è possibile farsi trasportare dalle cavalcate oniriche di “Beauty Tape Rider” o di “Pearl Harbour”. Rispetto ai lavori originari l’ingresso di un violino e di un violoncello ha contribuito inoltre a rendere gli arrangiamenti molto più sinfonici e limpidi, eliminando apparentemente la patina elettrica che aveva contraddistinto i due precedenti Gdm e Iceberg. Molti si sono già posti il problema di catalogare i GDM nello stretto giro di parentela coi Mogwai e con gli altri maestri del post-rock europeo e nordamericano come, ad esempio, i Godspeed You Black Emperor!. Ad una analisi attenta ci si rende conto, invece, che entrambi gli accostamenti sono limitativi, se si esce dalla tendenza restrittiva che vuole catalogare esperienze strumentali così diverse nei confini di un unico insieme, quello del post-rock. Semplicemente i Giardini di Mirò, e forse in questo sta la loro vera originalità, hanno saputo costruirsi una propria dimensione sonora senza essere troppo facili prede delle soniche distorsioni alla Mogwai o delle splendide tentazioni epiche dei GYBE!. Da segnalare anche la collaborazione di Matteo Agostinelli degli Yuppie Flu, che presta la sua voce nella dolcissima e melanconica “Pet Life Saver” e del cantante dei Tram, interprete di “Little Victories” ballata simbolo dell’album. La definitiva conferma di quanto puntino in alto i Giardini di Mirò e di quanto sia internazionale il panorama della nuova musica italiana, sempre più rivolta, e ben accolta, verso il mercato estero.
Al momento dell'uscita del successivo Punk... Not Diet (2003), i Giardini di Mirò erano attesi al varco da tutti gli appassionati di indie-rock “made in Italy”. E, come nel caso degli Yuppie Flu, l’attesa è stata ripagata da un disco per certi versi sorprendente.
I Giardini di Mirò hanno saputo rinnovarsi senza snaturarsi, hanno saputo scrollarsi di dosso gli scomodi paragoni che certa critica ha subito tirato in ballo (Mogwai, GY!BE, ad esempio), hanno intelligentemente allargato i loro orizzonti, abbracciando anche la forma canzone in alcuni casi, inserendo parti di elettronica minimale e, soprattutto, servendosi maggiormente del canto. Un canto che dà maggior equilibrio alle composizioni e le arricchisce di sfumature inaspettate.
Ed è subito la voce a farla da padrone dapprima nella traccia iniziale, “Too much static for a beguine” dove il caldo recitato di Ronnie James ci dà il benvenuto, sostenuto da un’atmosfera sospesa e sognante, poi nella stupenda “The swimming season”, dove il cantato di Alessandro Raina ci accompagna sino a quello che, per il sottoscritto, è uno dei momenti più alti dell’album, e cioè quell’intrecciarsi mozzafiato di tromba, clarinetto e sax, che dimostra come le influenze di questo album vadano ben oltre il ristretto mondo dell’indie-post rock.
È poi la volta del singolo “Given ground (oops…revolution on your pins!)” con la voce di Raina sempre a dominare la scena, sostenuta dagli eterei cori di Kaye Brewster (già presente su “The soft touch Ep” dello scorso anno).
C’è una sottile tensione che pervade quasi tutto il disco e che trova libero sfogo in uno dei brani migliori, “Connect the machine to the lips tower *be proud of your cake*”: un brano “vecchio stile”, circolare, rabbioso e sofferto, tra le cui trame trovano spazio le parti elettroniche di Herrmann, minimali e disturbanti.
L’elettronica dà il suo apporto anche nelle seguenti “Once again a fond farewell” e “The comforting of a trasparent life” e, in questo caso, Styrofoam dimostra come le barriere tra post-rock e indietronica possano essere intelligentemente eluse. Si ritorna, poi, a un approccio più classico, quasi folk, in “When you were a postcard”, con un banjo in sottofondo e arpeggi di chitarre che sembrano sempre più un tutto, un’unica linea melodica che colpisce dritto al cuore l’ascoltatore.
A chiudere, le due tracce più particolari e bizzarre: “Last act in Baires”, quasi una ninna-nanna, con le sorelle Brewster al canto, e la conclusiva “Dolphins are here to watch your blue blood flow”, un brano che può ricordare i L’altra per l’uso di due strumenti classici quali violino e piano.
I Giardini di Mirò continuano, quindi, il loro cammino verso la loro personale idea di musica e lo fanno in maniera convincente, cambiando le carte in tavola, pur mantenendo una coerenza di fondo con i precedenti lavori che, pur essendo ottimi, forse pativano la mancanza di strutture più elaborate; strutture che si rivelano equilibrate e mai pesanti. I Giardini di Mirò guardano (giustamente) al di là dei confini italiani, anche se finalmente qualcosa si sta muovendo anche qua, e lo si evince dal sempre crescente pubblico presente ai loro concerti, così come a quelli di altri gruppi indie rock italiani quali Yuppie Flu, Three Second Kiss, Julie’s Haircut, etc..
A distanza di tre anni dal fortunato Punk... Not Diet!, i nostri tornano sulle scene con l'Ep North Atlantic Treaty Of Love, originariamente diviso in due parti (uscito su Lp sempre per 2nd rec.) e qui unito in un solo cd. Tante cose sono successe nel frattempo: il canto di Alessandro Raina è sparito per lasciar posto a quello di Jukka Reverberi e Corrado Nuccini, Luca Di Mira ha pubblicato un disco solista molto buono a nome Pillow, tra suggestioni glitch e elettronica ambientale, il già citato Corrado Nuccini ha lavorato duro al suo progetto di hip-hop in odor di Anticon (in uscita a breve) e, infine, i Giardini di Mirò sono stati anche impegnati nelle vesti di produttori per il disco dei Zucchini Drive, duo hip-hop belga che si è avvalso dell'aiuto dei cinque di Cavriago, appunto, oltre che di Markus Acher dei Notwist, Alias, Populous e altri.
Si parte forte con "Othello", che vede un beat di matrice sorprendentemente dance fare gli onori di casa per poi trasformarsi in impalcatura per una suggestiva cavalcata carica della malinconia tipica della band: non mancano, infatti, gli intrecci di chitarra che tanto abbiamo amato, così come gli archi strappalacrime e i tappeti di synth che disegnano aperture in luoghi invero claustrofobici e scuri, esaltando la natura inquieta del brano. Novità assoluta: la voce di Jukka Reverberi, tra canto e spoken word, a recitare versi de "L'Otello" di Shakespeare.
Non pensiate però che questo Ep sia solo un salto in un futuro prossimo, perché il passato è dietro la porta e bussa con i rintocchi di "Blood Red Bird" di Bill Callahan aka Smog, brano che i Giardini di Mirò eseguono da anni durante i loro live e che si avvale della voce dell'ex Alessandro Raina che, nel finale, azzarda una citazione de "Il cielo in una stanza" di Gino Paoli: due canzoni eccezionali coverizzate in una sola traccia.
A chiudere, la versione di "Last Act In Baires" ad opera di The Sea, probabilmente il brano più debole del lotto, causa la riproposizione di cliché ormai abusati che lo rendono un buon sottofondo, ma nulla più.
L'atteso nuovo lavoro sulla lunga distanza, Dividing Opinions, esce nel 2007. E in due minuti (i primi) fa già capire molto: certe cose, ora, Jukka e soci le vogliono dire senza intermediari, c’è l’urgenza di metterci la faccia e vedere l’effetto che fa. Ed è la cosa più lampante, che poi si traduce anche in un impatto sonoro decisamente meno crescente sulla lunga distanza: si va subito su di giri per frenare quando sarebbe lecito aspettarsi che il motore esploda. E invece non esplode, lasciando nel limbo una chitarra sporca e sola.
Sulla sua coda ne arriva un’altra a introdurre “Cold Perfection”, dove è ancora Jukka a cantare, dove la batteria è dritta e il piglio è quello della canzone pop, naturalmente imbastardita sul finale con un beat electro e attraversata per tutto il suo corso da questo senso di mancanza, sempre dietro l’angolo.
Così come ci sono i Blonde Redhead di “Misery Is A Butterfly” dietro “Embers”: quel senso di linearità circolare, la voce un po’ nasale di Corrado a ricordare quella di Amedeo Pace, le parti orchestrali gentili.
Archi che proprio dolci non sono in “July’s Stripes”, anzi: la tensione sale, le chitarre si fanno cupe. Qui fanno capolino i Godspeed You Black Emperor, da sempre amore dichiarato dei ragazzi di Cavriago.
Questa volta però il gioco dei rimandi non vuol essere destabilizzante “all’italiana” perché, diciamolo, il nostro, a volte, è un po’ un parlare di musica per somiglianze, come a dire che se ci sono influenze dichiarate o esplicite, la proposta perde automaticamente potenza e bellezza. E’ un cercare corrispondenze nostrane ai grossi nomi inglesi/americani, vedere queste realtà crescere per poi vanificare un po’ i loro sforzi così, paragonando in modo distruttivo, volgarizzando il senso stesso dell’ascoltare un disco o dell’andare a un concerto. Ed è quasi ora di cambiare direzione.
Allora, questo disco è intriso di amore per alcune band, dai Sonic Youth (la conclusiva, lunga e dal tambureggiare tribale “Petit Treason”) ai Blonde Redhead, dai Godspeed You! Black Emperor agli Slowdive (il singolo “Broken By” ricorda molto le atmosfere di “Souvlaki”). Sappiatelo. Ci sono momenti di differente intensità, cose riuscite, belle, profonde. Altre un po’ meno.
Alla prima categoria appartiene di certo “Self Help”, brano che vede la collaborazione di Glen Johnson dei Piano Magic e cresce man mano che i secondi passano, grazie anche ai bellissimi arrangiamenti di archi che rispondono alle inflessioni umorali e romantiche della voce di Glen. Una canzone. Una bella canzone.
Forse l’unica nota non dico stonata, bensì fuori dal contesto è “Clairvoyance”, annacquata da arrangiamenti un po’ pesanti, per non dire barocchi. E’, in pratica, l’unico momento “debole” di questo Dividing Opinions, album maturo e infine riuscito, dove la band di Cavriago abbandona le incertezze sul da farsi di Punk… Not Diet! e compie delle scelte chiare e decise, mettendosi in discussione senza però perdere di vista quanto di buono è stato fatto in passato.
E’ migliorato il suono, più arioso e vario, è migliorata la scrittura. Loro sono cresciuti.
E sono pronti a dividere le opinioni del pubblico italiano, come al solito: chi li ama alla follia e chi non li regge, senza mezze misure. Avanti così.
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